LEWIS HINE. AMERICAN KIDS
Le inchieste del celebre fotografo americano sulla condizione minorile di poveri e immigrati negli Stati Uniti di inizio '900 nelle foto conservate dalla Library of Congress
Come nel film di Sergio Leone “C’era una volta in America”: in anteprima nazionale a la Casa di Vetro di Milano l'esposizione dedicata alle condizioni di vita e di lavoro dei figli degli immigrati (per lo più europei, e tra loro i tantissimi italiani) e delle classi sociali più povere negli Stati Uniti ai primi del ‘900, realizzata con le più belle immagini conservate negli archivi della Library of Congress scattate da Lewis Wickes Hine, il grande maestro americano della fotografia sociale, di ritratto e di reportage che ha ispirato gli autori americani degli anni ’30 (in primis Dorothea Lange) al servizio del governo del New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Gli scatti sono tratti dagli archivi, donati al governo degli Stati Uniti, della National Child Labour Committee, o NCLC, la principale organizzazione privata senza fini di lucro protagonista del movimento nazionale di riforma del lavoro minorile a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La sua missione era quella di promuovere "i diritti, la consapevolezza, la dignità, il benessere e l'educazione dei bambini e dei giovani in relazione al lavoro."
Lewis W. Hine realizza le immagini come fotografo investigativo per la NCLC tra il 1908 e il 1924. Un lavoro pericoloso che spesso lo rendeva vittima di minacce di violenza o addirittura di morte da parte dei vigilantes e dei capisquadra delle fabbriche o dei caporali della manodopera agricola. Per entrare in miniere e fabbriche, Hine spesso si spacciava per un vigile del fuoco, un venditore di cartoline o fotografo industriale che ritraeva macchinari. Le sue ricerche ci conducono attraverso un universo a se stante composto da giovani e giovanissimi impegnati nella lotta quotidiana di realizzare il sogno americano. Un sogno che sembra essersi avvitato su se stesso. Il lavoro minorile infatti, sottopagato e molto richiesto (il 18% della forza lavoro americana ai primi del ‘900 è composto da minori sotto i 16 anni), toglie opportunità ai padri che si ritrovano disoccupati e dipendenti dal lavoro dei loro figli. Avviliti e frustrati, quegli stessi padri si sentono così dei falliti e abbandonano spesso le famiglie, costringendo a nuovi sforzi proprio i loro figli sempre più condannati a una dimensione lavorativa da adulti. Con una logica da fotoreporter, ma con un’estetica da ritrattista, Hine ci racconta la vita quotidiana sia sul lavoro che nel privato di milioni di ragazzini figli di immigrati e delle classi sociali più povere. Ci mostra infatti il lavoro nei campi, nelle fabbriche, nelle miniere, in strada, nelle case. Li segue mentre recuperano dalle discariche tutto ciò che può essere utile, da rivendere o da bruciare per riscaldarsi. Li riprende nelle scuole, quando hanno la fortuna di poterle frequentare. Indaga sui loro passatempi – i giochi sui marciapiedi, il cinema, il biliardo, ... E ce li fa infine vedere mentre rubano o stanno agli angoli delle strade in bande violente che si contendono i quartieri o che si misurano tra loro quando le squadre di baseball preferite si ritrovano negli stadi dando vita alla forma moderna di violenza tra tifoserie.
In quell’America di inizio ‘900 presa d’assalto dai migranti europei, malvisti dalle classi sociali più povere di meno recente migrazione, a essere protagonisti della criminalità sono proprio i ragazzi italiani. Dal 1876 al 1900 arrivano negli Stati Uniti circa 800.000 compatrioti. Ma nei primi 15 anni del nuovo secolo la loro presenza si intensifica fino ad arrivare a 3.500.00. Gli italiani sono solo il 6,5 % della popolazione ma il 30% delle bande giovanili di quartiere, spesso molto violente, era composto da nostri connazionali. Anche nei riformatori i nostri ragazzi raggiungevano percentuali simili. Secondo un’inchiesta del 1904 tra i detenuti minorenni nati negli Stati Uniti i ragazzi italiani rappresentavano oltre il 28%, seguivano poi i russi, i tedeschi e i canadesi. In maggioranza sono condannati per reati di lieve entità: ubriachezza, vagabondaggio e piccoli furti. A spingerli a trasgredire la legge è l’estrema povertà e la le paghe spesso misere di lavori duri e precari. Molti poi erano i ragazzi giunti da soli in America senza famiglia alla ricerca di opportunità che spesso non si presentavano. Pochi poi erano i minori italiani che frequentavano le scuole. A essere penalizzate erano soprattutto le bambine che rimanevano a casa per aiutare le madri nei lavori a cottimo – per esempio per il confezionamento di abiti. Ma anche i maschi disertavano le scuole, spesso per la difficoltà a inserirsi e per le discriminazioni che subivano – per il modo di parlare, di vestire, etc. Secondo alcune ricerche il 77% dei ragazzi italiani aveva un ritardo scolastico di almeno un paio d’anni rispetto ai loro coetanei – la percentuale più grande tra gli immigrati europei. A subire maggiormente il razzismo della società americana verso i nuovi arrivati erano i figli dei meridionali, distinti da quelli di italiani di origine settentrionale, descritti come incapaci perché “mentalmente inferiori”. Altissima, secondo alcune ricerche, era poi tra gli italiani immigrati la mortalità infantile sotto i 5 anni: si arrivava al 92,2 % contro una media cittadina del 51,5%. A uccidere di più erano morbillo e tubercolosi. E in particolare a essere colpite da quest’ultima malattia erano le femmine.
Per la prima volta in Italia la mostra è “visitabile” via internet anche per i privati, oltre alle scuole: è infatti possibile, per chi non può raggiungere la Casa di Vetro, visionare la selezione di immagini sugli schermi di casa propria (pagando € 12,50) tramite un link riservato e una password a tempo. Fa parte del pacchetto un pdf di approfondimento (lo stesso a disposizione in mostra) che racconta non solo le immagini ma anche il loro contesto.
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Foto di:
Library of Congress
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foto sfondo pagina © Courtesy Library of Congress, Prints & Photographs Division, National Child Labor Committee Collection